Nucleare

di | 15 Novembre 2016

IL PERICOLO DEL NUCLEARE

Già la semplice parola “nucleare“ fa paura perché evoca tragedie immani come le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki alla fine dell’ultima guerra mondiale o l’incidente di Chernobyl. Pochissimi collegano invece quel termine al suo significato originale ovvero a quella particella piccolissima e densa che sta al centro dell’atomo e che fu individuata, con un esperimento memorabile per chiarezza e semplicità, dal fisico inglese Ernest Rutherford nel 1911. Le bombe su Hiroshima e Nagasaki, con le migliaia di morti che provocarono e per le dolorose conseguenze genetiche che cagionarono, hanno rappresentato una delle manifestazioni più terribili della malvagità umana e tutti si augurano che una simile tragedia non abbia più a ripetersi. D’altra parte anche l’uso pacifico del nucleare come fonte energetica alternativa è ritenuta un reale pericolo per la salute e per l’ambiente, come in modo inequivocabile ha dimostrato l’incidente di Chernobyl.

BILANCIO DI UN DISASTRO

Siamo proprio sicuri che l’incidente avvenuto in vicinanza della piccola cittadina ucraina abbia rappresentato una delle peggiori sciagure in campo tecnologico? Non furono forse i media ad enfatizzare quel malaugurato episodio indubbiamente grave, ma non tanto come lo si vuol fare apparire? Prima di dare un giudizio definitivo di quel tragico evento cerchiamo di capire come ciò possa essere accaduto.
Innanzitutto bisogna chiarire che a quel disastro, che non potrebbe nemmeno definirsi “incidente”, contribuirono numerose cause, la prima delle quali riguarda la costruzione della centrale, che era priva di alcune indispensabili strutture di sicurezza a cominciare dalla mancanza di una protezione di cemento armato sovrastante il reattore. La seconda era relativa ad un difetto del reattore stesso che diventava instabile quando la potenza era troppo bassa. Se tutto ciò è vero, è vero anche che la causa determinante del disastro deve essere ricercata nel fattore umano, poiché i tecnici in quello sciagurato 25 aprile 1986 commisero una serie di errori e negligenze molto gravi contravvenendo a precise norme operative come quella di disattivare i sistemi che avrebbero dovuto bloccare il reattore in caso di pericolo. Gli esperimenti dei tecnici, che nelle loro intenzioni avrebbero dovuto aggiungere sicurezza al reattore, finirono per provocare l’esplosione dello stesso. Si trattò di un’esplosione simile a quella di una grossa caldaia, ma il danno maggiore fu provocato dalla combustione della grafite, un materiale che aveva la funzione di rallentare i neutroni diretti contro i nuclei degli atomi di uranio.
Una volta scoperchiato e incendiato il reattore una parte del complesso radioattivo in esso presente, finì nell’atmosfera trascinata dal fumo denso e caldissimo che si era formato in seguito all’incendio. Molto di quel materiale ricadde in vicinanza della centrale ma una certa quantità raggiunse l’alta atmosfera da dove i venti lo spinsero in zone anche molto lontane dal luogo della sciagura, finché esso raggiunse l’Europa e anche l’Italia.
A più di vent’anni dalla tragedia sono stati diffusi i risultati di un rapporto di 600 pagine redatto dal Chernobyl Forum, un gruppo di ricerca che per quel lavoro si avvalse della collaborazione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), della FAO (Food and Agriculture Organization) organismo dell’ONU incaricato di provvedere ai problemi connessi all’alimentazione e allo sviluppo dell’agricoltura, dell’IAEA (International Atomic Energy Agency) e della Banca mondiale, oltre che dei governi dei principali Paesi colpiti: Bielorussia, Russia e Ucraina. Il rapporto traccia un bilancio dei danni effettivi dell’incidente e fornisce una risposta chiara ad alcuni interrogativi quali il numero reale dei morti, il tipo di malattie indotte dalle radiazioni e infine le conseguenze socio-economiche e ambientali di quel disastro. Prima di procedere è bene chiarire che le centrali nucleari sono sicure almeno quanto quelle che producono corrente elettrica utilizzando i combustibili fossili e non possono scoppiare come si trattasse di bombe atomiche.
Il risultato più sorprendente del rapporto riguarda il numero dei morti, un numero, come vedremo subito, nemmeno confrontabile con quello riportato da alcuni organi di stampa i quali senza avere a disposizione alcun dato certo parlarono di centinaia di migliaia di vittime, una cifra assurda e di gran lunga superiore a quella che avrebbero provocato le due bombe atomiche sul Giappone. Si trattava evidentemente di informazioni manipolate in modo grossolano tanto da impedire qualsiasi ragionamento sereno e corretto. I documenti ufficiali parlano invece di due morti nell’immediatezza del disastro e di 240 persone, fra addetti alla centrale e pompieri accorsi sul posto per spegnere l’incendio, che vennero pesantemente irradiate. Di queste ultime 30 morirono nei giorni successivi all’intervento sul luogo dell’incidente e altre 20 negli anni successivi.
Fra la popolazione civile i bambini furono quelli che subirono i danni più gravi per avere respirato l’aria contaminata e consumato latte. Nell’aria e nel latte era presente lo iodio radioattivo che, se ingerito, si accumula nella tiroide, una ghiandola endocrina molto attiva nei giovani. Per fortuna il periodo di dimezzamento di questo elemento radioattivo è di soli otto giorni per cui, in un breve lasso di tempo, la sua presenza nel corpo delle persone era quasi scomparsa. Si registrarono tuttavia circa 4.000 casi di tumore alla tiroide che provocarono la morte di 15 bambini mentre gli altri si salvarono, anche se i ragazzi sono sottoposti tuttora a controlli periodici perché la presenza dello iodio nella tiroide può provocare l’insorgere del cancro anche a distanza di decine di anni.
Non è giusto pertanto fermarsi ai morti accertati perché vi sono anche le persone irradiate da piccole dosi che potrebbero nella loro vita contrarre il tumore o la leucemia. Le agenzie specializzate dell’ONU hanno calcolato che il numero totale delle persone che vivevano nelle regioni contaminate in seguito all’incidente dovrebbe aggirarsi sui sei milioni di unità ma la maggior parte di esse è stata esposta ad un livello di radiazioni molto basso se posto a confronto con quello dei territori naturalmente radioattivi, come è ad esempio in Italia l’isola d’Ischia o la zona del Tarvisiano. Fra tutte queste persone potrebbero verificarsi 9000 casi mortali di tumori nel corso della loro vita che viene stimata in 80 anni. Ora poiché le statistiche ci dicono che attualmente oltre il 25% della popolazione muore di cancro la percentuale dei tumori causati dal disastro di Chernobyl è impercettibile, in quanto rappresenta solo lo 0,6 per cento dei casi accertati.
Concludendo, il bilancio finale del disastro di Chernobyl dovrebbe essere di 32 vittime quasi immediate, altre 19 negli anni successivi, 15 bambini vittime di tumori alla tiroide su 4000 casi complessivi, oltre a 9000 possibili decessi nell’arco di 80 anni. Se, in ultima analisi, si confrontasse il numero dei morti accertati dell’incidente di Chernobyl con quello del disastro del Vajont in cui perirono in pochi minuti quasi 2000 persone vittime, è bene sottolinearlo, di una forma di energia “pulita” ed ecologica a differenza di quella nucleare che da molti viene giudicata “sporca” e inquinante, si vedrebbe che quest’ultimo è quasi irrisorio.
Si è anche parlato di danni genetici ma il rapporto del Chernobyl Forum ha potuto accertare che nella zona colpita non vi è stato alcun aumento di alterazioni cromosomiche o malformazioni congenite.

L’URANIO IMPOVERITO

L’uranio spaventa anche se è impoverito. L’uranio naturale, come sappiamo, è una miscela di 3 isotopi di cui i più abbondanti sono quello di massa 238 detto “uranio 238” e quello di massa 235 detto “uranio 235”: il primo rappresenta il 99,238% del totale mentre il secondo, che a differenza del primo è molto radioattivo, lo 0,711%. L’altro isotopo, il 234, anch’esso fortemente radioattivo, è presente però con solo lo 0,0054% del totale. Tutti e tre gli isotopi sono quindi radioattivi ma, a parità di quantità, con intensità diverse: il 238 fornisce 0,33 microcurie per grammo (il curie è l’unità di misura della radioattività di una sostanza e corrisponde a 3,7·1010 disintegrazioni al secondo; il microcurie è un milionesimo di curie), il 235 libera 2,2 microcurie per grammo, e infine il 234 produce 6.100 microcurie per grammo.
L’uranio 235 è quello che viene usato come combustibile nucleare e per tale motivo il prodotto naturale viene arricchito di questo isotopo con un processo di separazione molto complesso, che lo porta ad oltre il 2% del totale. Ciò che rimane alla fine di questa operazione è chiamato uranio impoverito o depleto (dall’inglese deplete che significa “impoverire, privare di”) e contiene circa lo 0,2% dell’isotopo 235.
L’uranio impoverito presenta un’attività di circa 0,41 microcurie per grammo, ma solo se in polvere, mentre, se è massiccio, poiché emette esclusivamente dalla superficie, ha attività per grammo molto minore. Le radiazioni emesse da questo metallo percorrono in aria solo pochi centimetri prima di esaurirsi mentre sarebbero efficaci sulla persona solamente se vi fosse contatto diretto con l’oggetto radioattivo.
L’uranio impoverito è un metallo con un peso specifico e una resistenza molto elevate e, proprio in funzione di queste caratteristiche unite al basso costo, trova diverse applicazioni. Esso viene ad esempio impiegato come materiale di zavorra in campo nautico e aeronautico e in molti altri oggetti, la cui peculiarità devono essere il peso e la resistenza come ad esempio le mazze da golf; questo elemento trova inoltre applicazione come schermatura dalle radiazioni, anche in campo medico. Il suo impiego principale è comunque in ambito militare dove viene utilizzato nella produzione di munizioni anticarro e nella corazzatura dei veicoli stessi.
L’uranio impoverito venne ampiamente utilizzato durante la guerra in Bosnia e in Kosovo, luoghi in cui si recarono le nostre truppe alla fine del conflitto in missione di pace. Ora accadde che alcuni militari i quali avevano preso parte a quella spedizione, al ritorno in patria si ammalassero di tumore contratto, a loro dire, per essere stati a contatto con munizioni di uranio impoverito. Quando vi fu il primo decesso conseguente alla malattia la polemica si inasprì e i media dettero molto risalto al caso parlando di “Sindrome dei Balcani”.
Come abbiamo visto, la radioattività dell’uranio impoverito è bassissima e comunque non superiore a quella naturale che ognuno di noi assorbe dall’ambiente in cui vive, ragione per cui la pericolosità maggiore dell’uranio potrebbe derivare dalla massa notevole del suo atomo. Si sa che questo metallo si degrada nel tempo e quindi potrebbe contaminare il suolo e l’acqua con rischi per la popolazione civile che vive nelle aree in cui sono caduti i proiettili durante la guerra nei Balcani: alcuni atomi di uranio potrebbero quindi essersi insinuati nel corpo delle persone o attraverso il cibo e l’acqua o per semplice inalazione o, caso ancora più evidente, attraverso schegge di proiettili rimaste nel corpo dei militari o dei civili.
È noto che gli atomi dei metalli pesanti come piombo e mercurio si legano agli enzimi disattivandoli e recando di conseguenza gravi danni al metabolismo del soggetto. La tossicità chimica dell’uranio, che tuttavia non è delle più alte fra quelle dei metalli pesanti, è comunque considerata prevalente sulla radiotossicità.
Non è da escludere che i casi di tumore denunciati dai soldati di ritorno dai Balcani possano essere stati contratti per altra via che non sia il contatto con l’uranio impoverito. Al riguardo sono stati fatti degli studi di mortalità su veterani e sulla popolazione civile al fine di confrontarli con quelli dei militari che avevano soggiornato di recente nelle zone di guerra.
Gli americani hanno messo a confronto centinaia di migliaia di veterani della Guerra del Golfo con altrettante migliaia di militari reduci da altre guerre senza riscontrare nei due casi differenze sostanziali di mortalità per malattie. Gli inglesi hanno messo a confronto migliaia di veterani reduci dalla Guerra del Golfo con un pari numero di persone della popolazione civile senza riscontrare, anche in questo caso, alcuna differenza di mortalità.
Gli stessi dati tranquillizzanti sono stati forniti da un vecchio medico che, avendo lavorato in Bosnia per oltre quarant’anni nell’unico ospedale in cui si curava la leucemia, ricordava che prima della guerra si registravano fra i 18 e i 24 casi all’anno. Dopo la guerra, i casi di leucemia furono 16-18 all’anno. Il dato riferito dal vecchio medico sembra contraddittorio ma bisogna notare che nel tempo è cambiata la popolazione residente ed è cambiata anche l’area geografica che fa riferimento a quell’ospedale, tuttavia la testimonianza del medico bosniaco sembra confermare che durante e dopo la guerra non vi è stato un aumento del numero dei malati di leucemia.
Gli studi e le ricerche scientifiche mettono in evidenza che per l’uranio, come per altri inquinanti, occorre evitare allarmismi inutili. Circa gli effetti ambientali personalmente non penso che l’uranio sia il peggio: per me il male peggiore rimangono di gran lunga il fumo e l’abuso di bevande alcoliche.

CONCLUSIONI

Possiamo concludere affermando che l’energia nucleare è una forma di energia sicura e affidabile e ciò è dimostrato proprio dall’incidente di Chernobyl. In cinquant’anni di nucleare quello successo nella centrale sistemata in vicinanza della cittadina ucraina, è il più grave che si sia mai verificato ed ha comportato solo una sessantina di morti. Nel frattempo gli incidenti nelle centrali in cui si fa uso dei combustibili fossili hanno provocato oltre 15.000 morti e perfino il sicuro ed ecologico idroelettrico ne ha causati 4.000. Se il nucleare avesse avuto lo stesso numero di vittime delle altre fonti energetiche la sua utilizzazione come fonte di energia sarebbe finita da un pezzo.
Bisogna inoltre tener conto dei rischi che si corrono nella estrazione dei combustibili fossili rispetto all’estrazione dei minerali di uranio. Lavorare in una miniera di uranio, fonte di energia nucleare, è dieci volte meno pericoloso che lavorare in una miniera di carbone, poiché quest’ultimo è in assoluto la fonte di energia che provoca più morti: 6-7 mila all’anno senza contare le vittime della silicosi che colpisce tutti i minatori.
Anche il gas naturale rappresenta un pericolo. Nel 1984 si verificò in Messico l’esplosione di diversi serbatoi di gas liquido che uccisero sul colpo 550 persone e ne ferirono 7000, sicché il suo trasporto potrebbe provocare il peggior incidente immaginabile. Qualora una nave metanifera che trasporta gas liquefatto a bassissima temperatura, in vicinanza della costa, per un incidente, dovesse spezzarsi e riversare in mare anche solo parte del suo carico, si provocherebbe una enorme nuvola fredda e densa di gas che spinta dai venti sulla terraferma potrebbe esplodere liberando una potenza paragonabile a quella di una bomba atomica.
Anche il petrolio ha causato ingenti danni che non sono solo quelli, peraltro gravissimi per l’ambiente, provocati dalle petroliere che hanno riversato in mare il loro contenuto sporcando le coste e uccidendo gli uccelli marini che, con il corpo imbrattato di catrame, non riuscivano più ad alzarsi in volo. Ai disastri ambientali vanno accostate anche le migliaia di morti avvenuta per l’esplosione di oleodotti e depositi con conseguenti incendi che hanno interessato le abitazioni poste in vicinanza dei grossi serbatoi di carburante. Perfino l’idroelettrico, come abbiamo visto nel caso del Vajont, può creare catastrofi imputabili a dissesti idrogeologici.
Certo, quello di Chernobyl non è stato l’unico incidente accaduto nelle centrali nucleari ma negli altri casi, fatta eccezione per uno solo di essi, si è sempre trattato di incidenti di piccola entità simili ai tanti che si verificano in centrali di altro tipo. Il 28 marzo del 1979 si verificò quello di Three Mile Island, località nei pressi di Herrisburg in Pennsylvania (USA) il più grave mai avvenuto prima di Chernobyl e il più grave in assoluto per i Paesi dell’occidente. Ebbene, in quella occasione non vi fu nemmeno un morto, non scoppiò la bolla di idrogeno che si formò nel reattore, a differenza di quanto avvenne a Chernobyl, né ci fu alcun incendio e la radioattività rilasciata nell’ambiente fu minima. Gli ufficiali sanitari della Pennsylvania e del vicino Stato di New York riferirono che una certa quantità di iodio radioattivo era stata rinvenuta nel latte, ma si trattava di una quantità minima solo leggermente superiore al limite di percezione strumentale. Tuttavia i costi della decontaminazione vennero stimati in miliardi di dollari ma i danni maggiori furono indiretti, in quanto dal giorno di quell’incidente ad oggi negli Stati Uniti non sono più state costruite centrali nucleari. In realtà quell’incidente ebbe anche aspetti positivi perché contribuì a rendere ancora più sicure le centrali esistenti che passarono da un utilizzo di meno del 60% ad oltre l’80%: come se fossero stati costruiti 30 nuovi reattori.
Attualmente nel mondo i reattori in attività sono 400 e producono il 17% dell’energia elettrica richiesta. In Europa le centrali nucleari sono 150 e soddisfano il 36 per cento del bisogno elettrico e la Francia, con l’80% di produzione di energia elettrica dal nucleare, ne detiene il primato.
Anche la disinformazione gioca un ruolo importante nel mettere in cattiva luce l’energia nucleare. Recentemente, in seguito al terremoto che ha colpito il Giappone danneggiando una centrale nucleare di quel Paese, si disperse nell’ambiente una certa quantità di acqua pesante. La TV nazionale diffuse la notizia che era fuoriuscita dalla centrale dell’acqua pesante radioattiva, ma quella che viene usata in alcune centrali nucleari non è radioattiva: essa serve semplicemente a rallentare i neutroni svolgendo le stesse funzioni che in altri impianti compie la grafite. In realtà il nucleare (se non ci sono incidenti) non induce inquinamento radioattivo di alcun genere; al contrario le centrali nucleari evitano che ogni giorno vengano immessi nell’atmosfera quasi due miliardi di tonnellate di anidride carbonica derivanti dall’uso dei combustibili fossili. Proprio questo tipo di gas, oltre a milioni di tonnellate di ossidi di zolfo e di azoto, molto pericolosi per la salute dell’uomo, è uno dei maggiori responsabili del cosiddetto effetto serra.
Il problema immediato più grave rimane quello dei rifiuti nucleari ma anche in questo caso la soluzione è stata trovata e se si è verificata qualche incomprensione ciò ha riguardato una cattiva informazione. In tutti i Paesi in cui si fa uso di nucleare sono stati individuati siti adatti per la conservazione delle scorie radioattive. Queste vengono prima “vetrificate”, cioè fuse insieme con vetro e zucchero, quindi chiuse in robusti recipienti di acciaio e sistemate in profondità della crosta terrestre in zone asciutte come sono, ad esempio, le cave di sale nelle quali, se ci fossero infiltrazioni d’acqua, il sale si scioglierebbe.
Se in Italia si ricavasse attraverso il nucleare l’elettricità che compriamo all’estero, prodotta dalla stessa fonte, la quantità di scorie generate in un anno potrebbero essere contenute in una ventina di cilindri di acciaio da sistemarsi in un sito sicuro che era stato individuato dagli esperti nella zona di Scanzano Jonico a 700 metri di profondità. A questo punto però è scattato il cosiddetto effetto “Nimby” (acronimo di Not in my backyard, cioè “Non nel mio giardino”). Nessuno vuole nelle proprie vicinanze depositi di scorie radioattive, ma nemmeno centrali nucleari o di altro tipo, termovalorizzatori, discariche a cielo aperto o qualsiasi altra struttura che possa allarmare la popolazione locale. Gli attivisti anti-nucleari si sono subito dati da fare per allarmare la popolazione locale allo scopo di intralciare la realizzazione di un ottimo sito per eliminare le poche scorie giacenti nelle tre centrali nucleari che non funzionano. Viene da pensare che se alcuni critici anti-nucleari riuscissero a provocare un incidente nucleare, sarebbero contentissimi di farlo.
Non tutte le scorie nucleari d’altronde sono da buttare: il cesio 137, ad esempio, è utilizzato per la radioterapia dei tumori. Altri elementi prodotti dalle reazioni di fissione servono per sterilizzare gli alimenti o per dare energia ai satelliti. Ma esistono anche alcuni prototipi di centrale nucleare nei quali l’uranio 238, che negli impianti in funzione viene considerato una scoria, è invece utilizzato per produrre energia. Si tratta dei cosiddetti reattori autofertilizzanti nei quali l’uranio 238, colpito da neutroni veloci, si trasforma in plutonio 239: un elemento che non esiste in natura e che viene usato come combustibile. I reattori autofertilizzanti così chiamati in quanto producono più combustibile di quanto ne consumino non si sono ancora affermati perché, ai costi attuali dell’uranio, sono più convenienti i reattori tradizionali; peraltro si deve pur citare l’esistenza del Superphoenix un progetto francese alla realizzazione del quale ha partecipato anche l’Italia.
Ci sono anche problemi di sicurezza in quanto il plutonio può essere impiegato, più facilmente dell’uranio, per costruire armi atomiche. L’uranio infatti per costruire bombe atomiche deve essere arricchito dell’isotopo 235 all’85% e non al solo 2 o 3 per cento. L’Iran è in grado di fare queste operazioni ed è proprio per questo motivo che la comunità internazionale non si fida delle dichiarazioni tranquillizzanti di quel governo.

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